Lezioni di storia: “Montagne. La Guerra bianca”,

Enrico Camanni al Teatro Sociale di Trento ha approfondito il conflitto che vide proprio nel Trentino uno dei fronti di maggiore interesse

Montagne. La Guerra bianca”, la quinta #LezionidiStoria di scena domenica 1 novembre al Teatro sociale di Trento, è stato un appassionante viaggio sulle tracce del conflitto combattuto in alta quota, sul fronte alpino, fra trincee, gallerie, camminamenti e vie ferrate. Il conflitto che vide proprio nel Trentino uno dei fronti di maggiore interesse. Con l'espressione "Guerra Bianca" si suole infatti definire quella particolare tipologia di combattimento che si svolse dal 1915 al 1917 sul fronte alpino, ad altitudini superiori ai 2.000 metri, fino a spingersi ai 3.900 metri dell'Ortles. Due in particolare i fronti principali, quello del gruppo dell'Ortles-Cevedale e quello del gruppo Adamello-Presanella, lungo quello che era all'epoca il confine della regione del Tirolo ed oggi è territorio della Provincia autonoma di Trento.

Introdotto da Claudio Ambrosi, studioso trentino e curatore della Biblioteca della Montagna della Sat, l'alpinista e giornalista torinese Enrico Camanni -  fondatore del mensile “Alp” e della rivista internazionale “L’Alpe” - ha proposto un percorso conoscitivo particolare e partecipato, alla scoperta della Guerra Bianca. Un itinerario ricostruito prevalentemente attraverso le lettere, i diari e le testimonianze dei soldati al fronte, che racchiudono emozioni, paure, inquietudini ed, in generale, uno sguardo umano e di prima mano sul conflitto. «L'esigenza di scrivere, di trovare un momento di intimità e riflessione era grandissima e avvertita da tutti – ha spiegato Camanni – e per questo oggi possiamo disporre di una mole incredibile di testimonianze».

Guardando le immagini della Guerra bianca, con le pazzesche condizioni ambientali nelle quali si trovarono i soldati viene da chiedersi: come fu possibile tutto ciò? Perché gli Stati maggiori decisero di andare a combattere in alta quota?

Forse per la prima volta nella storia la montagna divenne infatti confine, spartiacque; un'idea tutto sommato “recente”, perché fino ad allora la montagna aveva sempre unito le persone, le popolazioni. Quando gli italiani entrarono in guerra nel 1915 la montagna assunse dunque un'altra connotazione: quella, appunto, di confine. E, di conseguenza, di fronte. L'idea dell'esercito italiano era quella di poter superare agevolmente la montagna per arrivare fino al Brennero, ma gli austriaci, con poche sentinelle e tiratori scelti posizionati in punti strategici hanno potuto bloccare l'esercito nemico, proprio sfruttando l'invalicabilità delle montagne.

Nella seconda metà dell'800 le montagne avevano iniziato a essere conosciute grazie al primo turismo e alla nascita delle guide alpine. Però di fatto le alte quote non erano mai state abitate in modo permanente. Negli anni della guerra si verificò questo cortocircuito, con centinaia di soldati che “abitarono” l'alta montagna in una guerra non di combattimento, ma di resistenza, non tanto al nemico, ma alle condizioni climatiche degli oltre 3.600 metri di quota. Il fascino di questa particolare guerra – se di fascino si può parlare di fronte alla drammaticità degli eventi – è stato proprio constatare come l'uomo nelle difficoltà sappia tirare fuori insperate risorse, basti pensare ai tanti giovani presi dalle campagne e “buttati” sul fronte senza preparazione, che seppero superare condizioni di vita durissime. E convivere, tra differenze di usanze e dialetti diversi, che spesso non facevano comprendere l'un l'altro.

Dai diari emerge poi costante il fattore dell'attesa. La Guerra Bianca fu prevalentemente una guerra di attesa, aspettando che succedesse qualcosa che non arrivava mai e soprattutto che passasse l'inverno. Nel '16 e nel '17, tra l'altro, la stagione fu durissima, con oltre 10 metri di neve, venti a 100 km/h e temperature fino a -30°, da superare con gli scarsi equipaggiamenti dell'epoca. I soldati si vestivano allora con tanta lana, ma spesso non bastava.

Una guerra combattuta fra le pareti, il cielo e la “pancia” delle montagne: anche dal punto di vista alpinistico fu una guerra straordinaria, perché si scalarono pareti di grande difficoltà. L'ingegno arrivò a vette altissime. Nel caso della Marmolada fu costruita una vera e propria città nel ghiaccio, così articolata che vi erano perfino i nomi delle vie, i fili telefonici che collegavano con l'esterno, ed una temperatura costante.

Ci sono però alcuni paradossi che impressionano, relativamente alla Guerra Bianca. In primis la lancinante contrapposizione tra la bellezza dei luoghi, che oggi sono meta di turismo, e l'orrore di quello che avveniva lassù. L'altro paradosso è che le conquiste talvolta diventavano sconfitte: come nel caso della presa italiana del San Matteo a 3650 metri, con le foto che immortalano i soldati italiani già preoccupati di dover da ora difendere una posizione così scomoda. 

Ma in questa Guerra durissima vi sono anche le storie edificanti, come ad esempio la tregua per il recupero della salma della guida alpina Innerkofler finita in un dirupo e seguito con trepidazione e rispetto da ambo i lati. Oppure i contatti notturni tra le truppe nemiche, nei quali ci si scambiava tabacco, generi di prima necessità, in uno spirito di solidarietà impensabile in quelle condizioni o forse reso necessario proprio da quelle condizioni estreme. Talvolta qualcuno per vincere la noia e l'inattività approfittava di una giornata di sole per imparare a sciare sul ghiacciaio o per i primi rudimenti di alpinismo. E il nemico non sparava. Vite “sospese” e “gelate” le definisce Camanni, con qualche breve sprazzo di serenità, come testimoniano le foto dei rari momenti di quiete, con il beltempo, quando i soldati potevano concedersi un po' di relax e fumare.

«C'è un fatto però che mi ha colpito più di tutti – ha concluso Camanni – La Guerra del fronte alpino non durò fino al 1918. Dopo Caporetto, questo “popolo alpino” fu richiamato repentinamente senza una spiegazione. Dall'oggi al domani gli italiani dovettero sgombrare nel giorno dei Santi del 1917. Di quei momenti vi sono tante testimonianze sui diari, con la disperazione che trapela per tutto quello che è stato fatto invano, per dover lasciare quel caposaldo per cui tanto s'era combattuto e per gli amici lasciati su quelle montagne». Molti di quei ragazzi, autori di quelle testimonianze, sono diventati imprenditori, medici, scrittori. Ma tanti non si sono più ripresi da quell'orrore.

Roberto Bertolini

02/11/2015

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