Il menù dell’Ultima cena

Nell'ambito del Festival Biblico (Trento 21 maggio - 2 giugno), Luca Frigerio propone presso il Museo Diocesano Tridentino un emozionante percorso attraverso le raffigurazioni dell'Ultima Cena, dai mosaici ravennati ai dipinti fiamminghi, dove l'arte si intreccia con le Sacre Scritture, la storia si incrocia con la teologia, l'umano incontra il divino, in una scoperta continua di simbologie oggi per lo più dimenticate.

Convegno
Baschenis Battista - Baschenis Giovanni (1471), Ultima cena
Corte Inferiore di Rumo, chiesa di Sant’Udalrico [ Museo Diocesano Tridentino]

Il pane e il vino. Ma anche i pesci e l’agnello.

Senza dimenticare le mele, le ciliegie e l’insalata. Fino ai sorprendenti gamberi di fiume sulle tavole imbandite di Friuli e Veneto, come in tutto l’arco alpino…

Cibi e alimenti che arricchiscono le mense dei Cenacoli, e che gli artisti cristiani, dalle origini al Seicento, hanno rappresentato con un’attenzione per le tradizioni locali, ma soprattutto sottolineandone una simbologia che affonda le radici nelle Sacre Scritture e nei commenti dei Padri della Chiesa.

 

Se ne parla venerdì 22 maggio, alle ore 17.30, in un incontro presso il Museo Diocesano di Trento.

 

Spezzò il pane, porse il vino. Per il più straordinario dei misteri, Gesù ha scelto la più umana delle azioni: il mangiare. E la più universale delle relazioni: il mangiare insieme. In una Cena che è davvero l’ultima, dove il Maestro ha radunato i suoi discepoli per l’estremo saluto: ardentemente, ci dice l’evangelista Luca, l’ha desiderato. Pur nel dramma del tradimento, nell’angoscia di una Passione che ha proprio qui, in questo cenacolo, il suo inizio.

Con docile fedeltà, gli artisti di tutte le epoche partono dalle pagine evangeliche per illustrare l’episodio dell’Ultima Cena, innumerevoli volte replicato perché fulcro della fede cristiana, nell’istituzione dell’Eucaristia. E tuttavia senza rinunciare, spesso, a un tocco “personale”, a un riferimento concreto, territoriale, caratteristico del tempo in cui operano, immediatamente allusivo per i fedeli a cui l’opera è destinata. Così che nel “menù” della Cena del Signore, si ritrovano alcuni alimenti costanti, ma anche, di volta in volta, nuove cibarie, inattesi ingredienti. Per lo più dalla forte valenza simbolica.

Il pane, sulla tavola dell’Ultima Cena, c’è sempre. Il pane cibo dell’uomo, che da Adamo, dopo la caduta, deve guadagnarsi a caro prezzo, con il sudore della fronte. Il pane che, mancando nel deserto, è offerto al popolo d’Israele nell’inaudito dono celeste della manna. Il pane miracolosamente moltiplicato da Gesù: non dal nulla, ma da quel minimo che pur è nelle umane possibilità. Il pane che sfama, ma che non basta. Che nutre, ma che non sazia per sempre. Che è buono, fragrante, profumato, e che proprio per questo acuisce ancor più il desiderio di un’altra bontà, di una imperitura fragranza, di un inebriante profumo. «Io sono il pane di vita», dice il Signore: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Accanto al pane, il vino, immagine della gioia di vivere. Perché se il pane è la base essenziale del sostentamento, il vino è quel surplus che rende il quotidiano una festa, che trasforma la normalità in occasione speciale. Dio stesso, canta il salmista, ci dà «il vino che allieta il cuore dell’uomo». Il primo svelarsi pubblico di Gesù è stato durante un banchetto di nozze, a Cana. Dove con il vino prodigioso sgorgato dalle sue mani, non soltanto si è festeggiata, oltre ogni attesa, la nascita di una nuova famiglia, ma si è brindato anche all’avvento del regno di Dio, era di grazia. Vino nuovo, sangue di Cristo, destinato a ogni uomo - «Bevetene tutti», dice il Signore – in un’eterna alleanza.

Nella più antica rappresentazione monumentale dell’Ultima Cena, quella nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, il vino però non c’è. Al centro del simposio, mirabile mosaico dei primi anni del VI secolo, si stagliano invece due grossi pesci su un vassoio. Il riferimento diretto è al miracolo della moltiplicazione effettuato da Gesù per sfamare la folla, evento prodigioso riportato da tutti e quattro gli evangelisti che assume il valore di una teofania (in favore in primo luogo dei discepoli stessi, ancora incerti e dubbiosi), ma che ha soprattutto un significato eucaristico, là dove, nella descrizione dell’evento, vengono usati i verbi “prendere”, “benedire”, “spezzare”. Come nell’Ultima Cena, appunto.

Senza dimenticare che il pesce in sé ha un importante valore simbolico. Cristologico, nello specifico, perché, come ricordava sant’Agostino nel De Civitate Dei, «se unisci le prime lettere delle cinque parole greche che significano “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore” risulterà ίχθύς, cioè “pesce”: è il nome con cui si intende simbolicamente Cristo, perché ha potuto rimanere vivo, cioè senza peccato, nell’abisso della condizione mortale come nella profondità delle acque». E nelle pitture delle catacombe, dove peraltro non abbiamo vere e proprie raffigurazioni dell’Ultima Cena, il pesce appare proprio come simbolo eucaristico: un rafforzativo del concetto stesso di “corpo di Cristo” offerto agli uomini.

Ma sulla mensa del cenacolo, nelle raffigurazioni artistiche medievali, come piatto principale compare soprattutto l’agnello arrostito. «Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare», aveva detto infatti Gesù a Pietro e a Giovanni. Quella Pasqua che è memoria del gesto potente con cui Dio libera il suo popolo dalla schiavitù, facendolo uscire dal paese d’Egitto. Dove l’agnello consumato, e che dà il suo sangue per segnare le case degli ebrei quale simbolo di salvezza, secondo la prescrizione dell’Esodo deve essere un animale senza difetti, maschio, nato nell’anno.

Agnello pasquale che ora è Cristo stesso, come già il Battista aveva riconosciuto: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo». E come san Paolo afferma chiaramente: «Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!». Con una identificazione così perfetta, che i più avveduti fra gli artisti non esitano a togliere proprio l’agnello dalla tavola dell’Ultima Cena, lasciando un grande piatto “vuoto” di fronte al Signore: non solo e non tanto per indicare temporalmente che si è ormai al termine del pasto, ma per mostrare come Gesù stesso sia il vero e unico agnello del sacrificio. Come fa, ad esempio, il fiammingo Dierick Bouts nel suo mirabile polittico a Lovanio o lo stesso Leonardo da Vinci nel refettorio milanese delle Grazie.

In epoca rinascimentale, inoltre, frutti e ortaggi arricchiscono sovente il desco della Cena del giovedì santo. Una cornucopia di primizie, che al di là dell’intento decorativo e descrittivo, ancora una volta evidenzia un universo simbolico di natura, è proprio il caso di dirlo, religiosa. Come fa ad esempio il Ghirlandaio, nei suoi raffinati Cenacoli fiorentini, dove lo sguardo si posa ora su un paio di mele, memento del peccato originale, ora su un cespo di lattuga, richiamo quaresimale alla penitenza e all’espiazione, ma anche, per le sue fibre ricche di umori (come affermavano gli allegoristi del XV secolo), emblema della misericordia del Signore. Mentre le numerose e scarlatte ciliege che punteggiano le bianche tovaglie di lino ricamate sono allo stesso tempo “proiezione” delle gocce di sangue che Gesù dovrà versare, ma anche anticipo delle future dolcezze di quell’Eden in cui ci guiderà il nuovo e ultimo Adamo.

Rossi sono anche i gamberi che, sorprendentemente, riempiono le tavole di numerose Ultime Cene dipinte, soprattutto fra Quattro e Cinquecento, in Veneto e Friuli, ma anche lungo tutta la dorsale alpina e prealpina, dalla Savoia al Canton Ticino, fino alle valli bergamasche. Gamberi di fiume che rappresentano, è evidente, un apprezzato alimento delle comunità locali. Ma che hanno, senza dubbio, anche una qualche valenza simbolica, ormai, per noi oggi, di non immediata lettura. Tanto che le interpretazioni degli studiosi variano da presunti riferimenti antisemiti o ereticali (per via di quell’andatura a ritroso tipica di questi crostacei, come di chi, insomma, si ritrae dalla verità, che è Cristo) alla denuncia, in quelle rosse corazze, del diabolico tradimento che si è insinuato con Giuda anche fra i Dodici...

Laddove, tuttavia, proprio il colore vermiglio dei gamberoni dovrebbe rimandare invece ad un’idea di trasformazione e di rinascita, che tali, cioè di un rosso acceso, diventano solo dopo la cottura (ovvero il “sacrificio”), come il Risorto che ammantato di luce ha sconfitto le tenebre della morte. Come ricordano alcuni mistici medievali, con poetici versi. E come ci mostra la secentesca Cena in Emmaus del Langetti, oggi esposta nel nuovo Museo San Fedele a Milano, con quella inaudita aragosta che accompagna lo svelarsi di Gesù ai due discepoli.


organizzazione: Museo Diocesano Tridentino

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